Prestazioni professionali gratuite e imposizione fiscale

Un professionista non può avere amici né parenti. Solo clienti. Perciò una prestazione gratuita deve essere, comunque, fatturata e l’importo della fattura deve essere assoggettato ad imposte.

Così ha deciso la Commissione Tributaria Provinciale di Ancona con sentenza 1279/3/2016, pronunciata sul ricorso presentato da un notaio (ma la decisione vale per qualsiasi altro professionista) avverso un avviso di accertamento della direzione provinciale delle Entrate.

Il ragionamento dei giudici Anconetani non sembra corretto.

Intanto la tesi è contraddetta da una decisione emessa dalla Suprema Corte di Cassazione non molto tempo prima (sentenza 28 ottobre 2015 n. 21972) in un giudizio avente ad oggetto la pretesa del fisco di sottoporre ad imposizione compensi non fatturati (perché non riscossi) a ben 72 clienti.

Dalla lettura di questa sentenza si ricava (se abbiamo capito bene) che il giudizio non verteva sulla tassabilità o meno di prestazioni gratuite eseguite da un professionista (che non era messa in discussione nemmeno dal Fisco) ma sul fatto che il numero di prestazioni eseguite potesse far presumere una evasione fiscale (cosa che il Supremo Collegio ha escluso ritenendo, tra l’altro, il comportamento del professionista finalizzato all’incremento della clientela).

L’art. 54 del T.U.I.R. (D.P.R., 22/12/1986 n° 917) considera “reddito derivante dall’esercizio di arti o professioni” la differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione, sancisce, cioè il principio di “cassa” per il quale i compensi vanno sottoposti ad imposizione solo se e quando sono percepiti. E non per nulla, nel caso deciso dalla S.C. con la sentenza citata il Fisco non pretendeva di tassare prestazioni gratuite, ma che il numero di prestazioni gratuite nascondesse una evasione fiscale di cui chiedeva l’accertamento.

L’art. 1 del D.P.R. 633/72 definisce assoggettabili ad IVA le “cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate … nell’esercizio di arti o professioni” ed il successivo articolo chiarendo il concetto di “cessione di beni” vi fa rientrare anche “le cessioni gratuite di beni” (comma 2, n. 4) e “la destinazione di beni all’uso o al consumo personale o familiare … di coloro i quali esercitano un’arte o una professione” (comma 2, n.5; c.d. “autoconsumo”) . Se alle parole si deve assegnare un senso univoco, le due ipotesi non si dovrebbero applicare alla prestazioni di servizi che l’art. 1 tiene distinte dalle cessioni di beni.

L’art. 6 riguarda il momento in cui le operazioni si intendono effettuate e, considera effettuate le prestazioni di servizi nel momento del pagamento del corrispettivo, momento che costituisce termine a quo per l’emissione di fattura, con la conseguenza che la pretesa di fatturazione in mancanza di un corrispettivo pagato si pone in contrasto con questa norma.

L’articolo 13 nel fissare la base imponibile, stabilisce che, per le cessioni indicate ai numeri 4), 5) e 6) del secondo comma dell’articolo 2, essa è costituita dal prezzo di acquisto o, in mancanza, dal prezzo di costo dei beni o di beni simili.

A prescindere dal fatto che anche in questo caso si parla di beni e non di prestazioni di servizi (come è reso palese dal riferimento al prezzo di acquisto, anche con riguardo a beni simili) questa norma non sarebbe applicabile alle prestazioni professionali che, come è del tutto evidente, vengono prodotte, per così dire, a titolo originario.

Ma il Fisco, periodicamente, ci riprova

 

La notizia è ricavata da “Il Sole 24 Ore” –   30/05/2016 pg. 1

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