Spending review: Casse beffate? Seconda puntata

Pubblichiamo senza commenti gli ultimi interventi in merito alla sentenza della Corte Costituzionale n.7 dell’11/01/2017.

Interrogazione del Senatore DE BERTOLDI al Ministro dell’economia e delle finanze

Premesso che:

secondo quanto risulta da un articolo pubblicato il 28 aprile 2021 dal quotidiano “Italia Oggi”, i rimborsi delle somme versate negli anni 2012-2013 dalle casse di previdenza dei professionisti all’amministrazione finanziaria dello Stato, in ottemperanza a quanto disposto dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, decreto “Spending review”, e successivamente dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 7 del 2017, non sono stati ancora restituiti, a causa della mancata istituzione di un fondo ad hoc del Ministero dell’economia e delle finanze, necessario a provvedere alla riammissione;

il ricorso effettuato da parte della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti, che ha richiesto la restituzione di 3,5 milioni di euro (relativi agli anni dal 2014 al 2019, per i quali è in corso un giudizio, mentre è stata effettuata la compensazione di parte di questi con i circa 500.000 euro relativi agli anni 2012 e 2013), evidenzia le manifeste difficoltà interpretative delle disposizioni normative previste dal decreto spending review, i cui effetti hanno determinato il ricorso di ulteriori istituti pensionistici privati, come la Cassa forense, che aveva richiesto la restituzione di oltre un milione di euro o dei periti industriali, che aveva presentato istanza di rimborso, per gli anni 2012 e 2013 per complessivi circa 500.000 euro;

l’interrogante al riguardo evidenzia come le numerose sollecitazioni rivolte al Governo Conte II, anche attraverso atti di sindacato ispettivo (nonché dall’articolo richiamato che conferma la lentezza nelle procedure di rimborso), siano rimaste disattese, considerando il ritardo con il quale il Ministero interviene in ottemperanza alla delibera della Consulta sulla declaratoria di illegittimità costituzionale,

si chiede di sapere:

quali valutazioni il Ministro in indirizzo intenda esprimere con riferimento a quanto esposto;

quali siano i motivi per i quali non abbia ancora provveduto alla restituzione delle somme già versate in favore degli enti di previdenza, il cui indebito versamento è stato successivamente dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, con la sentenza citata;

se, in considerazione dei ritardi che hanno fatto sì che il Ministero non abbia ancora provveduto all’istituzione del fondo necessario e al riversamento delle somme dovute alle casse di previdenza interessate, non ritenga, infine, urgente e necessario disporre in tal senso in tempi rapidi.

Risposta del MEF all’interrogazione del Senatore DE BERTOLDI

Il vice ministro Laura CASTELLI risponde all’interrogazione 3-02519 del senatore De Bertoldi, precisando preliminarmente che la Corte costituzionale ha espressamente limitato l’incostituzionalità della norma nei soli riguardi della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza dei dottori commercialisti (in seguito CNPADC), emettendo una sentenza “interpretativa” di accoglimento con formula di illegittimità costituzionale parziale della normativa impugnata. In considerazione dello stretto tenore letterale del dispositivo, infatti, la citata pronuncia di incostituzionalità non ha espunto dall’ordinamento giuridico ex tunc la norma in contestazione con effetto erga omnes, cosa che sarebbe avvenuta solo qualora la formula di incostituzionalità, contenuta nel dispositivo della sentenza, avesse recato una pronuncia riferita a tutti gli enti previdenziali privatizzati.

La pronuncia della Corte può essere annoverata nell’ambito delle sentenze di illegittimità parziale interpretativa, caratterizzate da formule dichiarative dell’incostituzionalità come «nella parte in cui prevede» seguita dalla specifica interpretazione fornita dalla Corte, con la conseguenza che la disposizione impugnata, anche dopo la sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale, è rimasta formalmente inalterata, con mera riduzione del suo ambito di applicazione limitatamente alla fattispecie esaminata relativamente alla CNPADC.

Nel caso di specie, ritiene, pertanto, che la Corte, considerata la platea dei destinatari della norma oggetto di sindacato costituzionale (costituita da tutti “Gli enti e gli organismi anche costituiti in forma societaria, dotati di autonomia finanziaria, che non ricevono trasferimenti dal bilancio dello Stato”), abbia voluto sancire l’incostituzionalità della norma nei soli riguardi, come espressamente enunciato, della CNPADC e non anche degli altri enti previdenziali privatizzati destinatari della norma impugnata.

Sottolinea, peraltro, che la Corte, nella citata sentenza, allorché ha affermato che “non è (…) conforme a Costituzione articolare la norma nel senso di un prelievo strutturale e continuativo nei riguardi di un ente caratterizzato da funzioni previdenziali e assistenziali sottoposte al rigido principio dell’equilibrio tra risorse versate dagli iscritti e prestazioni rese”, ha, tuttavia, evidenziato che le spese di gestione degli enti previdenziali devono, in ogni caso, ispirarsi alla “logica del massimo contenimento e della massima efficienza, dal momento che il finanziamento di tale attività strumentale grava sulle contribuzioni degli iscritti, cosicché ogni spesa eccedente il necessario finisce per incidere negativamente sul sinallagma macroeconomico tra contributi e prestazioni’ e che “le misure di contenimento della spesa per i beni intermedi (…) sono utili non solo ad assicurare pro quota la partecipazione della Cassa al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, ma anche a preservare da un’eccessiva espansione della spesa corrente una parte delle risorse naturalmente destinate alle prestazioni previdenziali, salvaguardando il buon andamento dell’ente in conformità degli obiettivi della riforma del 1994”.

Ad ogni modo, proprio in considerazione della specifica missione istituzionale svolta dagli enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e al decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103, e tenuto conto di quanto precisato nella menzionata sentenza n. 7 del 2017 della Corte (in ordine alla necessaria temporaneità del prelievo), il concorso degli enti previdenziali in argomento al miglioramento dei saldi di finanza pubblica non è più strutturale, ma limitato fino all’anno 2019 in quanto, ai sensi dell’articolo 1, comma 183, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018), a decorrere dal 2020, non si applicano più a tali enti le norme di contenimento delle spese previste a carico degli altri soggetti inclusi nell’elenco ISTAT.

Evidenzia, infine, che l’esclusione delle casse previdenziali dall’applicazione delle norme in materia di contenimento della spesa è stata confermata dalla legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio 2020), laddove all’articolo 1, comma 601, si prevede che i vincoli di spesa recati dalle disposizioni di cui ai commi da 590 a 600 “non si applicano agli enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e al decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103, per i quali resta in vigore l’articolo 1, comma 183, della legge 27 dicembre 2017, n. 205′.

Conclusivamente, rileva che la richiesta di restituzione delle somme versate al bilancio dello Stato in ottemperanza alle disposizioni dell’articolo 8, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, avanzata da talune casse previdenziali, non trova conforto nella ragionevole interpretazione della più volte citata sentenza della Corte n. 7 del 2017, la cui applicazione è espressamente limitata alla CNPAD.

Presa di posizione dell’AdEPP sull’argomento

La risposta del MEF alla interrogazione del senatore De Bertoldi presenta anzitutto un grave vizio giuridico: una sentenza della Corte Costituzionale di accoglimento, con dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale di una norma di legge, non può mai – per sua stessa natura – avere effetto solo per la parte che promosse il giudizio, ma espunge dall’ordinamento la norma di legge incostituzionale, e ciò vale ovviamente per tutti i destinatari della norma stessa.

Ma in più, la tesi del MEF porterebbe a una clamorosa discriminazione tra soggetti uguali: non si vede perché la sentenza dovrebbe valere per la Cassa di previdenza dei commercialisti e non per le altre Casse che hanno identica natura e posizione.

Anche a prescindere, peraltro, dalle considerazioni giuridiche, la risposta alla interrogazione finisce comunque, anche al di là delle intenzioni degli autori, per inserirsi in una corrente di pensiero che non può non preoccupare i professionisti iscritti alle Casse di previdenza.

Norme come quella dichiarata incostituzionale o alcuni orientamenti recenti tendono a svilire la autonomia delle stesse Casse e la loro natura di soggetti privati: ma autonomia e natura privata non costituiscono un privilegio che i liberi professionisti vogliono preservare.

Al contrario rappresentano un valore primario, relativo ad un modello di previdenza e assistenza che integra il principio costituzionale di sussidiarietà.

Le categorie dei liberi professionisti, come gran parte dei lavoratori autonomi, sono tra i più colpiti dalla gravissima crisi economica che ha accompagnato la epidemia; le loro Casse di previdenza hanno svolto, stanno svolgendo e ancora svolgeranno straordinarie azioni di intervento e di sostegno ai loro iscritti, e di aiuto ai giovani che intendono avviarsi alla professione.

Le ragioni di autonomia delle Casse, alla base della legge che dispose la loro privatizzazione, non solo sono ancora valide, ma divengono ancor più indispensabili alla luce dei nuovi gravosi compiti che attendono il sistema.

E la loro tutela implica il riconoscimento del valore collettivo di intere categorie di lavoratori autonomi che provvedono con le loro risorse, attraverso le Casse, ad attuare i principi di solidarietà tra gli iscritti e di sostegno al futuro proprio e delle loro famiglie.

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